Giornata della memoria 2024. La riflessione di William Beccaro
Ad Auschwitz si va sempre e solo a sinistra. Non c’è una volta, in oltre tre ore di visita, che Beata e poi un lunghissimo
cognome polacco, guida in lingua italiana del museo del campo di sterminio nazista, dirà di andare a destra. Anzi, una
volta lo dirà, cioè alla fine della visita, quando ci porterà ai resti dei forni crematori di Birkenau o se preferite Auschwitz II.
D’altra parte andava così anche nella realtà del campo di sterminio. Appena scesi dai treni merce c’era la prima
selezione: se il medico SS indicava a destra era la camera a gas per i più deboli, a sinistra la morte più lenta nelle
baracche.
“Qui sono state ammazzate un milione e trecento mila persone, di queste oltre un milione e cento erano ebrei”. Dice
“ammazzate”, non un generico “sono morte”: “ammazzate”, punto. E guardandoti negli occhi snocciola i numeri: ebrei,
polacchi, prigionieri sovietici, rom, intellettuali critici, partigiani, omosessuali. Ma poi puntualizza, per anticipare
fraintendimenti: “ma più del 90 per cento ebrei”.
E io guardo e non capisco. Non riesco a immaginarlo. Vedi tutto. Vedi quel che resta, quel che è stato ricostruito, le
tonnellate di capelli, i quintali di occhiali, le divise macilente, le foto dei forni crematori in funzione, le perle di zyklon B (il
gas letale), le baracche, vedo ma non riesco a figurarmelo.
E mi accorgo che supera la mia comprensione perché finisce sempre male e sempre senza un motivo accettabile,
umanamente accettabile. Se sei la mamma che scende dal treno con i suoi bimbi e il neonato in braccio e non vuoi
separarti dai tuoi piccoli, muori. Se sei un uomo con il bastone muori. Se sei piagato da un viaggio di una settimana in un
vagone merci, muori. Se alla SS dici di avere tredici anni, muori. Se il tuo treno è il quinto ad arrivare a Birkenau, muori.
Tu arrivi qui e muori e non c’è un perché. Muori perché sei ebreo e muori perché ingenuamente ti fidi della SS che, nello
spogliatoio della camera a gas ti dice di ricordarti del numero di gancetto a cui appendi i vestiti perché poi li dovrai
riprendere. Ma il poi non ci sarà. Muori settecentomila volte.
Ma mettiamo invece che la selezione la superi. Morirai, insieme ad altri cinquecento mila, ma lo farai molto più
lentamente di quelli finiti subito nelle camere a gas. Morirai di fame dopo solo sei mesi di prigionia. Sei mesi dove non
sarai più una persona, ma una cosa con un numero tatuato sul braccio sinistro. “Le donne sopravvissute - racconta
Beata davanti a foto orribili - pesavano tra i 23 e i 35 chilogrammi, alcune sono morte perché hanno dato loro un pasto
normale e il loro corpo non sapeva più assimilarlo”.
I sopravvissuti, già perché qualcuno è sopravvissuto. Gli italiani più famosi li conosciamo. 174.517 era la matricola di
Primo Levi. Lo ha scritto chiaro e tondo nei suoi libri che è rimasto in vita solo per caso, per fortuna. Dei 650 con i quali
arrivò da Fossoli, si salvarono in venti. 75.190 è il tatuaggio fatto sopra il polso sinistro a Liliana Segre, fa parte dei 776
ragazzini italiani arrivati ad Auschwitz quando non avevano ancora quattordici anni, lei e altri ventiquattro sono
sopravvissuti.
Il sopravvissuto lo riesci a immaginare. Ne conosci il volto. I morti, alcuni, li conosci qui. Le foto nei “pigiami” a righe. Ma
sembrano lapidi. Sembra un cimitero. Invece questo non è un cimitero, è un massacro. Un massacro di dimensioni tali
che la parola non esiste e, anche se ti ci vuoi rifugiare in quella che sembra coniata apposta, la puoi sentire, ma non
comprendere. È troppo.
“Anche noi quando pensavamo ai deportati, avevamo vergogna: non avevamo niente da rimproverarci, ma non avevamo
sofferto abbastanza”.
Lo scrive Simone De Beauvoir ne I Mandarini ed è per questa frase che sono qui. Però è arrivato qui che mi accorgo
dove sta l’inganno.
Io posso cercare di immedesimarmi quanto voglio per cercare di comprendere, ma io non sono un deportato. Io non
sono un condannato a morte. Io qui non ci sono finito. E quindi, inequivocabilmente io sto dall’altra parte del filo spinato.
Di quel filo spinato elettrificato così tanto che alcuni, esausti, vi si attaccavano per suicidarsi.
Dei miei due nonni uno era partigiano e non l’ho conosciuto, l’altro invece era scappato da Napoli con l’Armistizio e a
piedi era tornato a casa in Veneto. Questo nonno l’ho conosciuto e io, beh, ero fiero dell’altro. Di quello che faceva
saltare i ponti contro i nazisti e non di quello che da loro si nascondeva. Ma ero troppo piccolo e troppo vigliacco per
chiedergli: “nonno ma perché tu non sparavi alle SS, come l’altro nonno”. La paura che mi ha sempre attanagliato a ogni
25 aprile era che io poi non avrei avuto il coraggio del nonno partigiano.
E qui ad Auschwitz la domanda si moltiplica per milioni di morti. È facile oggi dire da che parte sarei stato. Ma
settantacinque anni fa io mi sarei chiesto come mai scomparivano i miei compagni di scuola? Avrei saputo non girare le
spalle al compagno ebreo? Avrei aiutato qualcuno a fuggire? Avrei avuto il coraggio di nasconderlo? Mi sarei rifiutato di
essere il macchinista di un treno del binario 21? E se fossi nato tedesco, avrei saputo oppormi alla “bestia umana”?
È evidente che non c’è risposta o non abbastanza convincente.
Il 27 gennaio del 1945 i sovietici entrarono ad Auschwitz e trovarono poco meno di otto mila prigionieri. Gli altri
sessantamila erano stati obbligati dai nazisti ad una marcia di centinaia di chilometri verso altri campi, in giornate a meno
dieci come oggi, pochi stracci addosso e zoccoli di legno ai piedi, morirono in quindicimila. Volevano nascondere le
tracce della loro disumanità.
Il 27 gennaio è la giornata della memoria. Io il così detto “Tribunale della Storia” lo immagino con gli occhi inquirenti dei
miei figli e magari domani dei figli dei miei figli, pronti alla domanda che io non ho saputo fare a quel mio nonno. E li
immagino fra un po’ di anni chiedermi: “ma tu da che parte stavi?” e io so che non avrò alibi. “Da che parte stavi quando
sono cominciate a ricomparire le svastiche sui muri?”, “Da che parte stavi quando le teste rasate picchiavano per strada i
ragazzi omosessuali?”, “Da che parte stavi quando le croci uncinate sono ricomparse, riempiendole, le nostre piazze?”,
“Da che parte stavi quando rabbino era il sinonimo di tirchio e tutti sorridevano?”, “Da che parte stavi quando i miei
compagni rom scomparivano dalla classe perché il loro campo era stato sgomberato?”, “Da che parti stavi quando lo zio
di Mohamed affogava in mezzo al Mediterraneo?”, “Da che parte stavi quando mal vestiti in centinaia attraversavamo le
Alpi per raggiungere la Francia dall’Italia?”, “Papà, ma tu da che parte stavi?”.
“Those who do not remember the past are condemned to repeat it” (“chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo”)
è la frase di George Santayana all’ingresso di uno dei primi blocchi di detenzione che si visitano. Ogni 27 gennaio io di
quello che è stato e di quello che è cerco di avere memoria, ma, perso dalle piccolezze mie, non sono poi così sicuro di
riuscirci.
William Beccaro
14 gennaio 2019
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