Perché includere il maschile nel discorso sulla violenza di genere

 Perché includere il maschile nel discorso

sulla violenza di genere

Post on: 26 novembre 2015

Lucia Liberti

Quanti tipi di violenza conosciamo e come nascono?

Esistono diverse forme di violenza, non solo quella fisica: la violenza psicologica, ad esempio, sembra

essere invisibile, ma è ugualmente dolorosa, così come quella economica e sessuale, a cui si aggiungono

lo stalking e infine il femminicidio. Quest’ultimo termine è un neologismo che l’Accademia della Crusca

spiega distinguendolo dal femicidio (in corsivo segue la definizione).

In questa sede chiamiamo dunque femicidio la forma più estrema di violenza contro le donne per

distinguerla ed al contempo metterla in relazione col femminicidio, ossia la violenza contro le donne in

tutte le sue forme miranti ad annientarne la soggettività sul piano psicologico, simbolico, economico e

sociale, che solitamente precede e può condurre al femicidio.

Il concetto di femicidio accolto comprende tutte le morti di donne avvenute per ragioni misogine, anche

per fatto delle istituzioni (per esempio per aborti forzati, interventi chirurgici non necessari come

l’isterectomia, sperimentazioni sui loro corpi) o di pratiche sociali patriarcali (mutilazioni genitali) o

culturali che portano a lasciar morire le figlie femmine di malattia, incuria, fame, per privilegiare la cura

del figlio maschio, come accade ad esempio in alcune regioni di Cina e India.

La violenza parte proprio dalla costruzione del genere: gli stereotipi che circondano entrambi i sessi

hanno un ruolo fondamentale nella nascita del fenomeno del femminicidio. Non a caso, nelle rare volte

in cui gli uomini vengono inseriti nelle campagne di sensibilizzazioni, sono invitati ad avere riguardo per

le donne, fragili e indifese. Nel momento in cui ci si rivolge agli uomini per prendersi cura delle donne, si

dà per scontato che siano loro, in quanto forti, i soli in grado di proteggere le donne dalla violenza.

Non sono solo gli stereotipi di virilità a influire sulla nascita di questo fenomeno, ma anche il gender paygap

e l’ideologia dell’amore romantico. Cosa sono? Il gender pay‐gap è la definizione data alla differenza

di paghe tra uomini e donne: a parità di merito professionale, sono queste ultime a essere retribuite di

meno. A questo è legato il concetto dei “soffitti di cristallo“: più si sale di livello all’interno di

un’organizzazione industriale o istituzionale e meno donne, persone di colore, omosessuali e

transessuali sono presenti, a causa di evidenti discriminazioni. L’ideologia dell’amore romantico porta

con sé, invece, l’ideale di donna sottomessa che attende inerme il suo principe azzurro. Non a caso,

dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna, disposta al sacrificio per il proprio compagno. La

pericolosità dell’idealizzazione dell’amore romantico e della figura della donna che col suo amore salva il

proprio uomo sta proprio nel fatto di illudere le donne di poter cambiare il violento. Ecco perché molte

vittime restano con i propri partner, perché pensano che il fatto di amarli possa bastare a “guarirli”. Da

qui, come si può intuire, deriva la violenza economica, psicologica.

Com’è vissuta la violenza dal violento?

Nei racconti delle storie di violenza, la donna si descrive sempre come spaventata e questo è ormai

risaputo: quante volte, accendendo la televisione, abbiamo sentito interventi di donne picchiate dai

propri partner o perseguitate da stalker dire frasi come “avevo costantemente paura” o “non riuscivo

più a vivere”? E’ però ancora inedita la versione di chi compie la violenza: in più casi l’uomo fa

ammissione di fragilità, dice di usare la violenza come reazione a un blocco emotivo. L’uomo violento, e

in quanto tale forte, che è entrato nel nostro immaginario è quanto di più lontano alla realtà possiamo

immaginare. In verità questo tipo di soggetto è egli stesso vittima di una violenza, quella che gli

impedisce, in quanto uomo, di esprimere le proprie emozioni.

La violenza si insinua nel maschile proprio attraverso la cultura del mantenimento dell’eterosessualità

normativa: la virilità è uno status sociale da mantenere, che si traduce nell’espressione del potere del

maschio bianco eterosessuale. Essere una “femminuccia” è ciò che di peggio può essere attribuito a un

uomo, ma non va inteso come un privilegio, perché ingabbia l’uomo in uno stereotipo duro a morire.

Questo potere si manifesta attraverso il silenzio. Quando si parla di etnia, non si parla di bianchi; quando

si parla di violenza di genere, non si parla di uomini. Coinvolgere il potere nella discussione è un modo

per abbattere le differenze. Includere il maschile nel concetto di violenza permette dunque di

riconoscere la presenza di maschilità non violente e di combattere le norme che definiscono la

maschilità nel sociale.

Le campagne contro il femminicidio sbagliano dunque a rivolgersi a uomini violenti: questi non si

riconoscono in quel tipo di persona. Se non si parla alla parte fragile dell’uomo, egli non riuscirà a

identificarsi. Non solo nelle campagne, ma anche sui media spesso la violenza è erroneamente

rappresentata. Vi è mai capitato di sentir parlare di “raptus” su un giornale? La convenzione di Istanbul

(a cui l’Italia ha aderito) definisce la violenza sulle donne come un atto di natura strutturale, negandone

dunque la natura rapsodica. In accordo alla definizione all’Accademia della Crusca, dunque, la

convenzione di Istanbul riconosce nel termine “femminicidio” un modo per identificare una cultura che

costruisce il genere e il disprezzo verso il femminile.

In che modo si manifesta il disprezzo verso il femminile?

Certe visioni si sedimentano, spesso inconsciamente, nella mentalità collettiva, fino a diventare parte

della cultura pop. Diversi esempi si trovano facilmente nella musica: Bella stronza di Marco Masini, in cui

non è difficile cogliere riferimenti a un tentato stupro (il testo della canzone viene però così descritto su

Wikipedia: “Al centro della canzone una donna che perde un ragazzo che le vuole bene, preferendo

piuttosto la ricchezza e i beni materiali”. Slut shaming?). Facendo riferimento a canzoni più recenti,

possiamo invece parlare di Blurred lines di Robin Thicke (I hate these blurred lines / I know you want it

[…] I’ll give you something big enough to tear your ass in two) e Love the way you lie di Eminem e

Rihanna («Just gonna stand there and watch me burn / But that’s alright because I like the way it hurts»,

canta Rihanna, «If she ever tries to fucking leave again / Im’a tie her to the bed and set this house on

fire» aggiunge Eminem).

Un altro fenomeno evidente, soprattutto nelle pubblicità, è quello del Male Gaze, cioè quando la

sensualità femminile viene usata per rivolgersi sia a un pubblico maschile che femminile, perché per i

primi sarà motivo di attrazione fisica, per le seconde un modello da raggiungere. All’uomo si dice «Potrai

averlo», alle donne «Potrai esserlo». La donna è vista come merce di scambio, al pari del prodotto

protagonista dello spot.

Una conseguenza dell’interiorizzazione della violenza produce l’idea dell’oggettificazione del corpo

femminile è anche di una certa sessualizzazione ad essa legata, che porta alla visione della donna come

un fantoccio vuoto, il cui dolore viene estetizzato. Un esempio lo si trova nel mediocre romanzo di

successo “Cinquanta sfumature di grigio”, ma anche il modo in cui la Vedova Nera viene sì torturata, ma

col seno ben in vista, i capelli sensualmente scomposti e il sudore a risaltare le forme prosperose.

Come bisogna coinvolgere il maschile nelle campagne?

In che modo vanno introdotti gli uomini nella lotta contro la violenza? Mettendoli in crisi. Per spiegare

questo concetto basta fare l’esempio di una campagna ministeriale dal titolo “Riconosci la violenza”, che

ha il merito indiscusso di invitare le donne a difendersi e non negare il male subito dietro l’illusione

dell’amore. Il titolo così chiaro, però, entra in contraddizione con l’effettiva realizzazione della

campagna: i volti degli uomini sono coperti, l’identità del violento rimane così indefinita e non si mette

in crisi il maschile. Ci si rivolge alle donne e si nasconde l’uomo. Come pretendiamo, allora, di

riconoscere il violento se questo non ha volto?



Il maschile va chiamato in causa, contrariamente a quanto fatto dalla campagna appena mostrata, ma

ricordiamo che va anche messo in crisi. Da questo punto di vista è ugualmente sbagliata la campagna del

Centro dei servizi per il volontariato Etneo, con la partecipazione di Beppe Fiorello che incarna la figura

dell’uomo‐guida, pastore di un gregge di donne‐pecorelle‐smarrite e che infine, da solo, riesce a

liberarle tutte dal silenzio. Uno spot del genere, pur coinvolgendo il maschile nell’intervento contro la

violenza, non mette in crisi il potere dell’uomo: la sua voce è l’unica udibile in tutto il video, la sua

immagine è l’unica forte, la responsabilità della salvezza è esclusivamente sua.

https://youtu.be/EGDLF8AGxCk

La maschilità si mette in crisi riconoscendogli un ruolo di non‐potere, o meglio di non‐forza. Perché il

potere in mano agli uomini, in questa lotta, è grandissimo, ma per vincerla c’è bisogno proprio che il

maschile si privi della violenza e dell’apparenza bruta e virile che i ruoli di genere spesso impongono.

Come una campagna davvero efficace dice: «Non servono supereroi». Tutti possono decidere di dire no

alla violenza, di ribellarsi, anche senza essere Superman.

Altri esempi di campagna perfetta? Quella dei nostri amici di Bossy.it, che con l’hashtag

#2511metticilafaccia hanno invitato gli uomini a esporsi pubblicamente contro la violenza di genere, a

volto scoperto e riconoscibile, a differenza del caso precedentemente mostrato. O ancora, la community

NoiNo.org, che mostra i volti degli uomini che non accettano la violenza e si descrive così: «Tutti, maschi

e femmine, subiamo dei condizionamenti culturali, sociali e psicologici. Quelli previsti per i maschi ci

consegnano la violenza come scelta predisposta per noi. Ma ognuno di noi può scegliere, fermarsi,

riflettere. E cambiare. […] NoiNo significa “Noi non lo accettiamo”, non “Noi non c’entriamo niente”».

Perché la violenza sulle donne non è solo una questione femminile.



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